GUAI A ME SE NON PREDICASSI IL VANGELO! (1Cor 9,16)

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Communicanda II – 1997-2003

 

COMMUNICANDA 2
Prot. N°  0000 0200/98
Roma, 14 gennaio 1999
Festa di Beato Pietro Donders

 

Miei cari confratelli,

1.         E’ per me un grande piacere salutarvi a nome di tutti i membri del Consiglio Generale. Questa seconda Communicanda del sessennio in corso è pubblicata nella festa del Beato Pietro Donders, Missionario Redentorista in Suriname, la cui vita si distinse non per talenti straordinari ma per una generosità senza limiti. Mi sembra molto opportuno offrirvi questa riflessione, che si occupa della natura della spiritualità missionaria, nel giorno in cui celebriamo la vita di un confratello che trovò la santità dedicando la vita alla predicazione del Vangelo tra i poveri più abbandonati.

2.         La preparazione di questa Communicanda ha coinvolto alcuni Redentoristi, oltre i membri del Governo Generale. Durante la prima settimana del mese di maggio 1998, furono inviate delle lettere a trentadue confratelli attraverso il mondo. Ad ognuno di essi si chiese di offrire la sua personale comprensione di un passaggio del Messaggio finale dell’ultimo Capitolo Generale: “La spiritualità è al contempo fonte e frutto della missione. La missione che non nasce da un profondo coinvolgimento col Cristo è destinata al fallimento…” (n. 6).

3.         Circa i tre quarti degli interpellati hanno risposto entro il mese di settembre. La profondità della loro riflessione, così come il loro evidente amore alla Congregazione, sono stati di grande incoraggiamento per il Consiglio. Se il contenuto di questa Communicanda sarà utile alla Congregazione, va riconosciuto il giusto merito alla saggezza dei miei fratelli del Consiglio Generale e all’intuizione di questi confratelli che da luoghi tanto distanti hanno contribuito con la loro esperienza, efficacia e speranza.

4.         D’altra parte, mi assumo la responsabilità per le lacune di questa lettera, con cui mi auguro di offrire alcune semplici osservazioni circa la “spiritualità missionaria”. I miei limiti e la cultura che mi ha formato lasciano una traccia inevitabile in queste parole. Nondimeno, la mia speranza è che esse contribuiscano a un dialogo, tramite il quale arrivare a una qualche visione comune capace di ispirarci gli uni gli altri, e di darci il coraggio necessario ad assumere la nostra particolare vocazione nella Chiesa e nel mondo del ventunesimo secolo.

Tre osservazioni preliminari

5.         Ci sono tre osservazioni che vorrei fare all’inizio di questa lettera. In primo luogo, per il Consiglio Generale è evidente che il tema proposto dall’ultimo Capitolo ha toccato un tasto importante nell’esperienza della maggior parte dei confratelli. Le visite che abbiamo fatto, la nostra partecipazione alle assemblee provinciali e la corrispondenza che abbiamo ricevuto dalle differenti unità ci fanno ravvisare qui un vivo interesse per la spiritualità in gran parte della Congregazione. Perché?

6.         Non cercherò di ripetere o sviluppare gli argomenti già proposti nella prima Communicanda, se non per dire che il richiamo della spiritualità può riflettere il nostro bisogno di andare oltre il paradigma della vita consacrata, proposta solo in un linguaggio teologico, pastorale, morale o liturgico, valido come possono essere questi modelli. Cerchiamo anche un ideale che sia radicato in un’esperienza autentica e vissuta, sia personale che comunitaria.

7.         In secondo luogo, pur constatando una risposta generalmente positiva alla proposta del Capitolo Generale, i membri del Consiglio sono anche consapevoli delle difficoltà connesse a una riflessione più profonda sulla spiritualità. E’ una sfida costante scoprire le giuste precisazioni di linguaggio, a cui ricorriamo parlando dell’argomento. Per esempio, ci sembra utile distinguere tra spiritualità e pratiche ascetiche. Naturalmente, le due cose non sono senza rapporto tra loro. La spiritualità di un individuo o di un gruppo sembra richiedere alcune espressioni concrete, se non vuole rimanere una semplice raccolta di idee.

8.         Terzo, al di là di una tecnica per pregare o di una accurata devozione, la spiritualità è connessa con domande fondamentali, e che spesso svolgono un’azione di disturbo: Chi siamo? Perché siamo qui? Come dobbiamo vivere? Sono domande spirituali e, in quanto tali, richiamano le realtà che definiscono l’esistenza umana. L’umiltà e un cuore capace di ascoltare sono presupposti indispensabili per questa riflessione. Quando proviamo a definire la spiritualità, scopriamo non i suoi limiti, ma semplicemente i nostri.

Verso una spiritualità Missionaria

9.         Non è opportuno, a mio parere, parlare di spiritualità e Missione. L’uso della congiunzione è infelice, perché può suggerire l’idea che ci può essere una Missione senza spiritualità e che questa spiritualità, almeno come la intendiamo, potrebbe esistere in qualche modo separata dalla Missione. Nelle loro risposte, parecchi confratelli osservavano che la spiritualità tocca il nostro stesso modo di pensarci come Redentoristi: ciò che Alfonso talvolta chiama “lo spirito dell’Istituto”. Considerata in questo modo, la spiritualità della nostra Congregazione dovrebbe suscitare alcune domande fondamentali, come quelle suggerite nel precedente paragrafo. Più che una serie di principi dottrinali o di pratiche ascetiche, la nostra spiritualità dovrebbe servire come una sorta di tessuto connettivo vitale, capace di congiungere armoniosamente tutti gli aspetti della nostra vita.

10.       Trovo una sintetica definizione della nostra spiritualità missionaria nel grido di Paolo nella prima lettera ai Corinzi: Guai a me se non predicassi il vangelo! (1Cor 9, 16). “Predicare il Vangelo” vuol dire più che tenere una predica missionaria, una conferenza in un ritiro spirituale o un’omelia la domenica, più che denunciare l’ingiustizia o insegnare alla gente a pregare. In effetti, la realtà va al di là d’ogni singola forma di attività pastorale. Cosa vuol dire e perché è tanto fondamentale per noi il fatto, se capisco bene, di essere “nei guai” se non “predichiamo il Vangelo”?

11.      Ricordate qual era l’unica nostra Costituzione che trovò posto nel Messaggio finale dell’ultimo Capitolo Generale? Rivolgendosi alla Congregazione, i capitolari si preoccuparono di richiamare un ampio passaggio della Costituzione n. 5 (cfr. Messaggio Finale, n. 8). Questa Costituzione usa un linguaggio inequivo-cabile per dimostrare quanto sia importante per i Redentoristi “predicare il Vangelo”: “La preferenza per le istanze pastorali più urgenti o per l’evangelizzazione vera e propria e l’opzione a favore dei poveri rappresentano la stessa ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa e il distintivo della sua fedeltà alla vocazione ricevuta”.

12.       Vorrei dimostrare che due criteri chiari e tra loro connessi rispondono effettivamente alle domande spirituali: Chi siamo? Perché siamo qui? Come dobbiamo vivere? Questi criteri sono la preferenza per l’evangelizzazione in senso stretto insieme con la scelta a favore dei poveri. Qui l’evangelizzazione non vuole includere solo l’esplicita proclamazione della Parola, ma anche la testimonianza di vita da parte dei singoli e delle comunità Redentoriste. Di conseguenza, se non accettiamo l’evangelizza-zione e la scelta per i poveri come costitutivi della nostra identità, né ci disponiamo ad agire in sintonia con essi, diventiamo infedeli o, quanto meno, diventiamo qualcosa d’altro rispetto a ciò che siamo chiamati ad essere. Parafrasando le parole di san Paolo, siamo “nei guai” come Redentoristi.

13.       Dobbiamo sempre avere a mente che la nostra spiritualità è in intimo rapporto con la Missione: ma non nel senso che le esigenze della spiritualità ci spingono verso il lavoro pastorale, o che non “diventiamo spirituali” a motivo del nostro servizio al Popolo di Dio. Il genio di Alfonso, un’intuizione che è stata ricuperata nella nostre Costituzioni rinnovate, è il suo credere che la Missione dà unità a tutta la nostra vita come Redentoristi. Questa forza unificante è chiamata “vita apostolica”: è il nostro modo di intendere ciò che vuol dire essere un Redentorista, che “fonde insieme la vita di speciale dedicazione a Dio e l’attività missionaria” (Cost. 1). La spiritualità è connessa in modo vitale alla nostra “preferenza per le istanze pastorali più urgenti o per l’evangelizzazione vera e propria, e l’opzione a favore dei poveri”. Quindi, a rigor di termini, l’origine e la fonte della nostra spiritualità si trova precisamente nella nostra Missione, definendola di conseguenza come una spiritualità veramente Missionaria (cfr. Ad Gentes, 23-27).

14.       Pertanto, il principale scopo di questa lettera è considerare con voi quelli che potrebbero essere alcuni elementi della nostra “spiritualità missionaria”. La mia sincera speranza è che quanto segue non suoni come un messaggio moralizzante. E’ piuttosto uno sforzo per esplorare con voi quelle che io ritengo alcune importanti dimensioni della vita apostolica.

Missione come vocazione

15.       La nostra Missione non è unicamente un’opzione personale o comunitaria ma, prima e soprattutto, una vocazione con la quale siamo stati chiamati. Il Capitolo Generale sottolinea la speranza che la nostra particolare vocazione può favorire: “La nostra speranza per il futuro si fonda sulla nostra vocazione a continuare il mistero di Cristo. Crediamo che la sua abbondante Redenzione non ha limiti e perciò ci sentiamo in dovere di condividere la nostra fede e la nostra speranza con tutti” (Messaggio finale, 12). Questa affermazione del Capitolo suggerisce che la nostra vocazione deriva non solo dal fatto di essere mandati dal Signore a predicare, insegnare e battezzare, ma anche dalle profonde domande suscitate dalla vita di Dio dentro di noi (cfr. Redemptoris Missio, 11). Cioè, nella misura in cui ci apriamo all’abbondante redenzione realizzata in Cristo Gesù, siamo sospinti a “condividere la nostra fede e speranza con ciascuno”. Di conseguenza, potremmo chiederci: in che misura la Missione è questione di fede, un preciso indicatore della nostra fede in Gesù Cristo che ci ha chiamati, per poi mandarci come suoi “collaboratori, soci e ministri nella grande opera della Redenzione, per annunziare ai poveri il Messaggio della salvezza” (Cost. 2)?

16.       L’evangelizzazione non sarà possibile senza l’azione dello Spirito santo (Ad Gentes, 24; Evangelii Nuntiandi, 75). Lo stesso Spirito che discende su Gesù durante il suo battesimo, rimane su di Lui, Lo unge e Lo invia “per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4,18). Noi Redentoristi siamo abituati a ripetere questo testo del vangelo di Luca. Siamo anche consapevoli che Alfonso fa spesso riferimento a questo brano, dichiarando che la Missione di Cristo è anche la Missione della Congregazione. Identificandoci con la Missione di Cristo, ne accettiamo comunque la prima conseguenza: cioè una vita di completa docilità allo Spirito, “che non cessa mai di operare per conformarci a Cristo, perché abbiamo gli stessi sentimenti che furono in Cristo e il suo stesso pensiero” (Cost. 25)? Questa docilità ci permette di ricevere i doni della fortezza e del discernimento, “elementi essenziali della spiritualità missionaria” (cfr. Redemptoris Missio, 87).

La persona di Cristo al centro della nostra vita Missionaria

17.       La Costituzione 23 rileva una condizione per realizzare la nostra particolare vocazione nella Chiesa: “I congregati, chiamati a continuare la presenza e la missione redentrice di Cristo nel mondo, fanno della sua persona il centro della loro vita, sforzandosi di aderire a lui sempre più saldamente”. Il Capitolo fa eco a questa esigenza dandole un significato universale, come anche un certa urgenza: “In qualsiasi contesto ci troviamo a vivere, crediamo che tutti noi Redentoristi siamo chiamati a mettere a fuoco un aspetto centrale della nostra spiritualità, vale a dire il modo in cui nutriamo ed esprimiamo la nostra relazione con Gesù Cristo” (Messaggio finale, 3). Non ci può essere alcun dubbio: per i Redentoristi una caratteristica essenziale della spiritualità missionaria è un’intima comunione col Cristo, il primo Missionario.

18.       Fratelli miei, lasciamoci dunque contagiare dalla grande passione di Alfonso, per il quale la salvezza, più che una teoria o un dogma, era un Nome, un Volto. Il nostro modello di evangelizzazione dipende da come il Popolo di Dio arriva a riconoscere Gesù così da potergli rispondere. Alfonso investì tutti i suoi formidabili talenti, nell’intento di aiutare i poveri a conoscere Gesù. Ricordiamo come egli portava il ritratto del Crocifisso dove avrebbe predicato, come la sua musica aiutava la sua gente a fare esperienza dell’amore salvifico del Cristo, come le sue parole, scritte e parlate, andavano dritto all’abbondante redenzione da trovare in Cristo. Con Alfonso, dobbiamo “ribadire la centralità del Cristo come mistero di misericordia del Padre in tutta la pastorale” (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica per il terzo Centenario della nascita di sant’Alfonso, 4).

19.       E’ possibile fare di Cristo il centro della nostra azione pastorale, se Egli non è “al centro delle nostre esistenze” e “al cuore delle nostre comunità”? Come possiamo giudicare se effettivamente operiamo queste scelte? La stessa Costituzione 23 ci dà un criterio per dirimere la questione: “quanto più stretta è la loro unione con Cristo, tanto maggiore sarà la loro unione reciproca”.

20.       Vorrei offrire un altro criterio che sembra maggiormente consono con la nostra esperienza pratica. Più scegliamo Cristo come centro delle nostre esistenze e ci sforziamo di entrare in una più intima e personale comunione con lui, meno finiamo col lasciarci assorbire dai nostri dubbi, insicurezze e ossessioni. Ci disponiamo maggiormente a “svuotare” noi stessi, a prendere su di noi la nostra croce e a seguire il Redentore. La nostra principale preoccupazione diventa il fatto che Gesù non è amato come dovrebbe.

La conversione Missionaria

Crediamo che la Congregazione si veda oggi offrire una grande grazia di conversione al Redentore. (Messaggio finale, 5).

21.       Il recente magistero papale sulla missiologia e le nostre Costituzioni concordano nel fatto che la proclamazione della Parola di Dio ha come obiettivo la conversione (confrontare la Redemptoris Missio, 46 e le Costituzioni 11-12). Le stesse fonti concordano: non possiamo predicare la conversione senza che noi stessi ci convertiamo ogni giorno (Redemptoris Missio, 47; Costituzioni 40-42). Non è troppo difficile scoprire perché la conversione è elemento essenziale della spiritualità missionaria. Essa scaturisce dalla stessa offerta a entrare in relazione con il divino. Così un primo invito mi dice: “C’è un Dio, e questi non sei tu”. Anche il Regno è qualcosa “altro” rispetto a me, qualcosa che deve essere scoperto, spesso a costo di grande sacrificio (Mt 13, 44-46); per il quale vanno fatte delle scelte (Gv 6,67); dal quale uno “può andare via triste” (Mt 19,16-22).

22.       La proclamazione della Parola di Dio ha come scopo la conversione. Tutto attesta questa verità: dalla predicazione di Gesù a quella della sua Chiesa e, con un’intensità particolare, il contenuto e il metodo di evangelizzazione propri della nostra stessa Congregazione. Comunque, è un fatto preoccupante che più di un confratello e più di una comunità vivano in maniera tale da far sapere: “La conversione riguarda qualcun altro, forse tutti gli altri. Non mi (ci) disturbate!”. Si sarà sbagliato il Capitolo Generale nel credere che “la Congregazione si vede oggi offrire una grande grazia di conversione al Redentore” (Messaggio finale, 5)?

23.       Molti confratelli che ci hanno aiutato a preparare questa Communicanda, parlavano della loro trasformazione in corso. Permettetemi di porre in risalto tre delle risposte pervenute. Un confratello scrive: “La spiritualità Redentorista è tutt’altro che un affare «tra me e Dio», quanto piuttosto un’impresa «dello Spirito che mi guida verso i poveri»”. Un altro, riferendosi alla sua intensa esperienza di conversione, sottolinea: “In seguito, non ho più parlato solo perché lo dicevano le Scritture o per  trovarmi d’accordo con gli stessi principi teologici o pastorali; lo faccio anche a partire dalla mia esperienza personale, fino a proclamare davanti alla gente: «Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per mio amore»”. In che misura è importante la conversione per la nostra vita apostolica? Vogliamo far tesoro di quanto ha asserito un confratello: “Nel suo significato fondamentale, la spiritualità è un modo di rapportarsi a Dio che trasforma al contempo l’esistenza dei missionari e quelle delle persone a cui sono inviati. E’ la capacità di accogliere e trasmettere un’esperienza di Dio” (Gv 15, 4-5).

24.       Come possiamo rendere più profondo uno spirito di conversione in ciascuno di noi? Quale valore assume il sacramento della Penitenza e la direzione spirituale nelle nostre vite? Abbiamo la volontà e la capacità di dare alla conversione una qualche espressione nelle nostre comunità?

La prima risorsa dell’evangelizzazione è la testimonianza

L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni (Evangelii nuntiandi, 41).

25.       Negli ultimi anni e in molte Regioni della Congregazione è via cresciuta la consapevolezza che ancor prima dell’attività, la Missione vuol dire testimonianza e una maniera di vivere che richiama l’attenzione altrui. I membri del Capitolo Generale del 1991 descrissero molto bene questa convinzione: “La comunità Redentorista deve essere il primo segno del nostro impegno di evangelizzazione. Non è soltanto il luogo da dove siamo inviati, ma anche e soprattutto una presenza efficace del Regno di Dio in mezzo agli uomini e alle donne, nostri fratelli…” (Documento finale, 23). La comunità Redentorista è una dichiarazione di fede: “nella comunità si sta assieme non perché ci si è eletti, ma perché si è stati eletti dal Signore” (La vita fraterna in comunità, 41).

26.       Crediamo che la nostra spiritualità missionaria ci chiama ad un particolare tipo di testimonianza? Un confratello osserva che la preghiera dovrebbe dare alla nostra proclamazione la stessa forza del versetto iniziale della Prima Lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita”.

27.       La testimonianza di uno stile povero o, quanto meno, semplice di vita non è mai una questione facile da affrontare. Resta il fatto che la gente nota il modo in cui viviamo. Questo è il solo ambito nel quale non possiamo fare a meno di dare testimonianza. Ho il sospetto che nella misura in cui noi permettiamo ai “bisogni” di moltiplicarsi, perdiamo in mobilità, diventiamo più riluttanti ad assumere dei rischi, e infine più distanti dai poveri abbandonati. E’ troppo pio osservare che, se le nostre mani sono intente ad afferrare o già occupate, non possono essere riempite da Dio, né andare verso gli altri in un amore disinteressato?

“Certosini in casa e apostoli fuori”?

28.       Confesso di aver avuto problemi con la formula tradizionale che ci chiama ad essere “Certosini in casa e apostoli fuori”. Direi che dovremmo essere Redentoristi in entrambi i posti e anche passando dall’uno all’altro. Non c’è dubbio che le nostre comunità dovrebbero essere luoghi dove poter pregare, insieme o anche individualmente, dove siamo in condizione di studiare e di riflettere. Ma questi aspetti della nostra vita sono parte della vita apostolica che dovrebbe caratterizzare la nostra Congregazione. La nostra casa non è semplicemente un posto dove “caricare le batterie” per poi scaricarle nell’azione pastorale, ancor meno un posto dove sottrarci agli altri o alle nostre responsabilità. La nostra stessa vita di comunità è Missione e testimonianza. Dovrebbe essere anche il posto dove ci incoraggiamo gli uni gli altri, come fratelli chiamati a continuare la presenza e la Missione di Cristo nel mondo. La nostra vita apostolica, vissuta sia in comunità che nella nostra azione pastorale, è il luogo dove diventiamo missionari e dove diventiamo santi.

29.       Pur sapendo che l’evangelizzazione ci chiede di essere esperti sia nella scienza sacra che in quella profana, dobbiamo ammettere che il rinnovamento accademico e pastorale non basta. “Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità” (Redemptoris Missio, 90). Ma non diventiamo santi e poi missionari. Né sarà la nostra fragilità a squalificarci. Mi viene da pensare che la maggior parte di noi fanno eco alle parole disperate di Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!”. Ascoltiamo piuttosto l’invito alla Missione: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 8-10).Ciò che dovremmo rivendicare è il progresso nella vita Missionaria, non la perfezione. Commentando il drammatico incontro tra Gesù e Pietro sulla riva del mare di Tiberiade (Gv 21, 15-17), Alfonso fa sua l’esegesi di Giovanni Crisostomo, sottolineando il fatto che Gesù non chiede penitenza o preghiere dall’apostolo pentito, ma piuttosto il servizio pastorale: “Pasci i miei agnelli”.

Il coraggio Missionario

Ci siamo chiesti in che misura il nostro impegno per i poveri è espressione della nostra spiritualità, e in che modo esso ci aiuta a sviluppare una spiritualità più autentica (Messaggio finale, 8).

30.       Quando penso in che misura sia essenziale la nostra scelta per i poveri per sviluppare una spiritualità più autentica, mi viene in mente la grande formula proposta dal Capitolo Generale del 1985: Evangelizare pauperibus et a pauperibus evangelizari. Ricordo che, se il tema non era facilmente compreso in tutte le Regioni della Congregazione, era senza dubbio oggetto di discussione! Alcuni confratelli trovavano particolarmente arduo comprendere la seconda parte della formula: a pauperibus evangelizari. I missionari erano tradizionalmente quelli che portavano beni spirituali. Il processo di evangelizzazione era una strada a senso unico. Cosa pretendevamo di ricevere, specialmente se questi doni dovevano arrivarci dai poveri? Qualsiasi missionario Redentorista che ha proclamato la Buona Notizia ai poveri sarebbe in grado di formulare un’ampia risposta alla domanda.

31.       Il tema del Capitolo Generale del 1985 ha avuto alcune conseguenze pratiche. Più di una Provincia ha riesaminato le sue priorità apostoliche alla luce del tema e ha quindi assunto alcune decisioni dolorose. In alcuni casi, le Provincie affidarono alla Chiesa locale la cura delle loro parrocchie più allettanti per accettare nuovi impegni in mezzo ai poveri abbandonati. Altre Provincie accettarono nuove missioni ad gentes, anche se questa decisione esigeva un costo pesante. Questi esempi dovrebbero incoraggiare l’intera Congregazione, poiché dimostrano che è possibile per le Provincie cambiare direzione, quando il cambio significa una più grande fedeltà alla “stessa ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa” (Cost. 5).

32.       Dal primo incontro dei Redentoristi con i poveri del Regno di Napoli, la storia della nostra Congregazione è stata segnata dal valore di numerosi suoi membri. La mia speranza è che l’esempio del nostro impegno con i poveri nel passato e nel presente, darà alla Congregazione il coraggio necessario di fronte al futuro. Avrà la Congregazione il coraggio di espandere la sua proclamazione del Vangelo tra i poveri abbandonati nei brulicanti bassifondi delle megalopoli del Sud, luoghi come Mexico City, Bogotá, Lagos, São Paulo, Manila, Johannesburg, Calcutta, Lima, ecc.? Possono i Redentoristi essere maggiormente presenti tra i nuovi poveri di Europa: gli emigranti, i rifugiati e i senzatetto? Quale testimonianza offre la Congregazione nel contesto dell’Europa dell’Est, soggetto a un così rapido cambiamento? Cosa vuol dire proclamare il vangelo nell’Ovest del benessere, dove la spiritualità che va di moda è ritenuta incompatibile con la religione, e dove i poveri si trovano sempre più ai margini della società e della Chiesa? Possono i Redentoristi continuare ad essere ambasciatori di Cristo e proclamare un messaggio credibile di riconciliazione nelle regioni dell’Africa dilaniate da conflitti civili? Qual è il futuro della nostra evangelizzazione in Asia, dove il messaggio cristiano si trova a confronto con le altre grandi religioni del mondo? Cosa ha da dire la Congregazione al cospetto della cultura globale, che presta sempre meno attenzione all’amore salvifico di Dio e, di conseguenza, è meno interessata alla solidarietà tra i figli di Dio?

33.       Il denominatore comune tra queste situazioni è che esse richiedono dai Redentoristi una fede coraggiosa. Spesso, questa fede coraggiosa è la volontà di lasciare ciò che è conosciuto: la mia cultura, il mio linguaggio e il mio stile di vita abituale, per andare incontro a situazioni di reale urgenza pastorale. A volte lo Spirito può chiamare una Provincia a consegnare ad altri i suoi impegni più attraenti e di maggiore successo per andare dove la Chiesa non può andare. Però mi preme dire che questo coraggio non è solo la fonte delle future iniziative missionarie, esso è anche il frutto offertoci dal “nugolo di testimoni” (Eb 12, 1) che circonda la Congregazione: tutti i Redentoristi del passato e del presente che si sono “svuotati”, come anche quelle Provincie che hanno fatto eroici sacrifici nell’interesse della Persona e della Missione di Cristo.

La contemplazione Missionaria

34.       Una fonte per e un frutto della nostra azione evangelizzatrice è lo spirito di contemplazione. “Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunziare il Cristo in modo credibile” (Redemptoris Missio, 91). Come intendiamo noi Redentoristi lo spirito di contemplazione? Esso è una disposizione spirituale che ci rende possibile amare come Gesù “per partecipare veramente all’amore del Figlio verso il Padre e verso gli uomini” (Cost. 24).

35.       Cercare di evangelizzare senza uno spirito contemplativo è come cercare di leggere questa lettera con la carta premuta contro la punta del naso. Può darsi che la vostra vista vi richiede di accostare il testo ma, per la maggior parte, una vicinanza esagerata rende indecifrabili le parole, oltre che difficile e faticosa la lettura del messaggio. E’ necessario prendere distanza tra noi e la carta, per poterla leggere. Nella contemplazione noi facciamo qualche passo indietro dall’immediatezza del nostro mondo, della nostra vita e della nostra attività. Guardiamo a Dio nelle persone e negli eventi della vita quotidiana. Cerchiamo di “cogliere nella sua vera luce il disegno di salvezza di Dio e distinguere la realtà dall’illusione”. Queste parole della Costituzione 24 può fornire materia per un’altra Communicanda! Ma vi riesce di vedere come uno spirito di contemplazione è necessario oggi più che mai, specialmente se siamo alle prese con fenomeni come la rapidità del cambiamento sociale, le quotidiane e profonde incursioni della cultura globale e la natura effimera di molti movimenti popolari?

36.       C’è un’altra ragione per coltivare uno spirito di contemplazione. Ha a che fare con una particolare rivendicazione della cristianità, pronunciata prima dal Concilio Vaticano II e ripresa poi dalle nostre Costituzioni: che nell’incontro col Cristo, gli esseri umani scoprono il significato del mistero della loro stessa vita (Gaudium et Spes, 22; Cost. 19). L’asserzione ha trovato eco più recente nella bolla papale che annunciava il Grande Giubileo dell’anno 2000: “l’amicizia di Dio, la sua grazia, la vita soprannaturale, l’unica in cui possono risolversi le più profonde aspirazioni del cuore umano” (Incarnationis Mysterium, 2). Una rivendicazione di senso contrario è offerta dal fenomeno globale del consumismo, vale a dire dall’idea che ciò che abbiamo o consumiamo ci farà felici e soddisfatti. Questa pretesa si oppone radicalmente alle esigenze del Vangelo, pur tuttavia è un messaggio che incontra successo. C’è la tentazione di denunciare i diversi “-ismi” dei nostri tempi – il secolarismo, il materialismo, l’individualismo, il consumismo, ecc. – senza comprendere le ragioni della loro popolarità. La contemplazione dovrebbe coltivare in noi lo “spirito di fraterna solidarietà”, che ci farebbe porre in atteggiamento di ascolto, per tentare di “interpretare i problemi che travagliano gli uomini” e “discernere in essi i veri segni della presenza o del disegno di Dio” (Cost. 19).

La pazienza Missionaria

37.       Mentre ero intento alla preparazione finale di questa Communicanda, ero anche membro dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Oceania. Uno degli interventi più memorabili durante queste tre settimane di incontri era proposto da un vescovo delle Mauritius, delegato speciale al Sinodo. Si riferiva alla scena del Vangelo in cui i discepoli stanno ammirando la grandezza del Tempio e i suoi preziosi ornamenti (Lc 21,5ss). Ricordate che Gesù profetizzò che il grande edificio sarebbe stato distrutto di colpo e completamente. Il vescovo chiese al Sinodo di pensare ai problemi di fronte a cui si trovava la Chiesa in molte regioni del mondo, come noi potremmo fare per la Congregazione. Osservò che se le cose precipitano, forse il tempio non era solido come sembrava. Forse dovremmo esaminare la nostra coscienza sul modo in cui costruiamo la comunità (cfr. 1Cor 3, 10-15).

38.       Se la costruzione di una struttura è un’immagine biblica per descrivere il lavoro di evangelizzazione, forse un’altra, più eloquente per i nostri tempi, è quella del seme e della zizzania. Il seme che convive con la zizzania è la Parola di Dio. Precede la dottrina, l’insegnamento della morale, la legge e la disciplina. E’ più importante perché “nella parola di Dio è contenuta una così grande efficacia e potenza da essere ancora per la Chiesa sostegno e vigore” (Dei Verbum, 21). L’immagine del seme e della zizzania sembra particolarmente avvincente in un tempo che esalta il successo di un momento. Il seme che portiamo con noi ci richiede di essere pazienti, anche se non vediamo risultati immediati (Gc 5, 7). E’ Dio che permette la crescita (1Cor 3, 6; Ad Gentes, 24-25).

L’ottimismo missionario: la promozione delle vocazioni

39.       Un’altra prospettiva, nella quale la nostra spiritualità è trasformata dalla Missione, è il desiderio di invitare altri a condividere totalmente il nostro modo di vivere. Possiamo dirci d’accordo con la Costituzione 79, per cui “l’efficienza della Congregazione nel portare avanti la sua missione apostolica dipende dal numero e dalla qualità dei candidati che vogliono abbracciare la vita dei Redentoristi”? Se siamo d’accordo, dovremmo di conseguenza accettare che ognuno di noi si assuma una responsabilità nel promuovere vocazioni, specialmente tramite il nostro zelo apostolico, l’esempio della nostra vita e la preghiera costante (Cost. 80).

40.       Ritengo che se il promuovere o non promuovere vocazioni è una questione spirituale, in quanto tale tocca nel profondo il nostro credere ai progetti di Dio per la Congregazione e al suo posto nella Chiesa. Ci sono confratelli di buon volontà per i quali la vita consacrata, ivi inclusa la Congregazione, è qualcosa in via di rapida estinzione. Un’analisi dei motivi per cui la Congregazione non riesca ad attirare candidati in alcune parti del mondo è complessa e certamente al di là degli scopi di questa lettera. Inoltre, la Congregazione non verrà meno alla crescente collaborazione con i laici. In ogni caso, dopo che il Capitolo ci ha invitato con insistenza a mettere a fuoco “un aspetto centrale della nostra spiritualità, vale a dire il modo in cui nutriamo ed esprimiamo la nostra relazione con Gesù Cristo” (Messaggio finale, 3), vale la pena meditare come l’esortazione apostolica Vita Consecrata presenta la sfida della promozione delle vocazioni: “essa mira a presentare, sull’esempio dei fondatori e delle fondatrici, il fascino della persona del Signore Gesù e la bellezza del totale dono di sé alla causa del Vangelo” (n. 64).

Tutti sono Missionari

41.       La Congregazione si trova di fronte ad una realtà prima sconosciuta nella sua storia. Mi riferisco al grande numero di confratelli anziani, della così detta “terza età”. Una qualsiasi riflessione sulla nostra spiritualità Missionaria deve includere questo gruppo. Mentre è mia intenzione riservare una futura lettera al problema della specifica domanda spirituale della “terza età”, possiamo cominciare ora col richiamare l’insegnamento della Costituzione 55: che cioè noi siamo tutti missionari a motivo della nostra professione. Questo carattere, che è fondato sulla nostra partecipazione alla Missione di Cristo, continua lungo la nostra vita, siamo o meno in grado di partecipare all’attività pastorale. E, come ci ricorda questa Costituzione in particolare, non raggiungiamo la pienezza della nostra identità Missionaria se non quando arriviamo a “soffrire e morire per la salvezza del mondo”.

Questione di ristrutturazione

42.       Una comprensione e accettazione della “stessa ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa” provoca altre domande. Alcune di esse riguardano le nostre decisioni di rimanere in un posto o di muoverci. Quando i Redentoristi arrivano a dire “ci sono altre città e villaggi” (Mc 1, 38)? A che punto “scuotiamo la polvere dai nostri piedi” (Lc 9, 5)? Quando il “ vino nuovo” richiede “otri nuovi” (Lc 5, 38)? L’ultima domanda riguarda non solo i nostri metodi missionari, ma anche le nostre stesse strutture. Dobbiamo continuare a garantire che le nostre strutture di governo e di amministrazione siano sempre al servizio della Missione. Dove questo non si verifica più, la struttura deve cambiare perché la Missione continui.

“Un tamerisco nella steppa”…“un bronzo che risuona”

La missione che non nasce da un profondo coinvolgimento col Cristo è destinata al fallimento (Messaggio finale, 6).

43.       Cosa rappresenta un Redentorista che non intraprende la Missione come espressione di un profondo coinvolgimento con Gesù? Quale impatto avranno le sue parole? Potrebbe assomigliare a “un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere” (Ger 17, 6). Così ci scrive un confratello: “ci si esaurisce non solo per un sovraccarico di lavoro, ma più facilmente per un vuoto o per una mancanza di convinzione nella propria vita, una mancanza di ciò che è spirituale”. Può l’«esaurimento» essere un problema essenzialmente spirituale? Non potrebbero i suoi dolorosi sintomi mascherare una sete di “fiumi di acqua viva” (Gv 7, 37-38)?

44.       Se osiamo parlare di Colui che non conosciamo, eventualmente suoneremo come qualcosa di vuoto e superficiale: “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1). Essere “missionari” non significa semplicemente essere vicini alla gente o fare un’opzione per i poveri; dovremmo avere un’esperienza da condividere con essi: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita” (1Gv 1, 1).

Domande senza risposte o “cuori che bruciano”?

45.       Fuori da un rapporto col Signore, ci troviamo di fronte a molte domande con una fragile speranza di risposta: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?” (Mt 15, 33). “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?” (Mt 19, 27). “Che cos’è la verità?” (Gv 18, 38).

46.       Dovrebbe risultare evidente che la nostra scelta della persona di Cristo come centro delle nostre esistenze e al cuore delle comunità non ci esime dal dubbio o dall’ansietà. Ma, dopo aver aperto i nostri cuori gli uni gli altri e con Lui, ci poniamo in ascolto. I nostri cuori possono poi cominciare a bruciare e sentiamo di dover portare un messaggio agli altri: per dire come l’abbiamo incontrato lungo la strada e come l’abbiamo riconosciuto.

Conclusione

47.       Permettetemi di riassumere i punti essenziali di questa lettera. La spiritualità chiama in gioco domande fondamentali e spesso fastidiose sulla nostra identità e sulle nostre intenzioni nei confronti della vita. Per i Redentoristi, la spiritualità deve essere intimamente connessa con la Missione: “la stessa ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa”. Quest’intima connessione vuol dire che noi scegliamo Cristo al centro di tutto, che la testimonianza ha una forza critica e che la contemplazione è condizione sine qua non per la vita missionaria. Vuol dire che noi lottiamo per essere coraggiosi, pazienti e ricchi di speranza al punto da invitare gli altri a condividere pienamente la nostra vita. In ultima analisi, la nostra spiritualità non può rimanere teoria: dobbiamo viverla. Ciò deve avere alcune conseguenze pratiche nella nostra vita.

La Congregazione e il Grande Giubileo

48.       E’ praticamente uno stereotipo dire che ci troviamo sulla soglia di un nuovo millennio. Per quanto noioso possa essere questo conto alla rovescia verso il nuovo secolo, non credo che potremmo ignorare lo straordinario “segno dei tempi” rappresentato dal Grande Giubileo. Abbiamo fatto caso ai diversi temi proposti dal Santo Padre per questa celebrazione? Hanno un accento familiare: conversione, trasformazione, penitenza, riconcilia-zione, redenzione, mistero pasquale. Questi stessi temi sono proprio al cuore della nostra Missione.

49.       E’ ragionevole aspettarsi che tutte le Provincie e Vice-Provincie intraprendano uno speciale progetto missionario come parte della celebrazione del Grande Giubileo? Sono ben consapevole che alcuni progetti sono già stati pianificati, come missioni cittadine o speciali pellegrinaggi. E’ vero anche che i membri di alcune unità – specialmente quelli che rivestono ruoli-guida – sono stanchi, scoraggiati e poco fiduciosi della collaborazione dei loro confratelli. Ma vorrei pregare ogni unità di inaugurare il terzo millennio cristiano con un progetto speciale che sia consono con “la stessa ragion d’essere della Congregazione nella Chiesa, e il distintivo della sua fedeltà alla vocazione ricevuta” (Cost. 5).

50.       Possa l’Immacolata Vergine Maria, che, dopo Gesù Cristo, è la principale Patrona del nostro santo Istituto, essendo esso nato in un modo speciale sotto la sua protezione, aiutarci ad amare il suo Figlio e far sì che Lui sia amato.

In nome del Consiglio Generale

P. Joseph W. Tobin C.Ss.R.
Superiore Generale

(Il testo originale è in inglese.)

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